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Ticino, ottobre 218 a.C.; Trebbia, dicembre 218 a.C.; Trasimeno, giugno 217 a.C.
Durante la Seconda Guerra Punica ai Romani la vicinanza dei corsi d’acqua certo non portò fortuna.
Proprio qui riportarono tre clamorose sconfitte ad opera dei Cartaginesi pur partendo da posizioni vantaggiose per numero d’uomini e quantità di risorse.
Dalla parte opposta però, al comando d’un esercito multietnico, c’era Annibale detto “Barca”, che in lingua punica significa “La Folgore”, uno fra i più brillanti condottieri dell’antichità.
Trentenne, aveva ricevuto un’educazione di prim’ordine.
Conosceva le lingue e aveva lasciato la sua città natale da bambino dopo che suo padre Amilcare gli aveva fatto giurare di vendicare Cartagine dell’umiliazione inflittale da Roma con l’imposizione delle clausole del trattato di pace stipulato al termine della Prima Guerra Punica.
Da quel momento cresce condividendo la dura vita dei soldati, vestendosi come loro, mangiando il loro stesso rancio e diventando non solo uno di loro, ma il migliore fra tutti.
Memore di quel giuramento, dopo la morte del padre cercò un pretesto per farsi dichiarare guerra da Roma.
Così cinse d’assedio Sagunto, città-fortezza che dell’Urbe era la miglior alleata a sud dell’Ebro, facendola capitolare dopo otto mesi.
La sconfitta avvenne anche per l’irresolutezza dei Romani che si guardarono bene dall’intervenire in suo soccorso, preferendo piuttosto perdersi in chiacchiere.
Famosa l’amara constatazione di Tito Livio: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” ovvero “Mentre a Roma si parla, Sagunto viene espugnata“.
Tanta irresolutezza convinse Annibale ad osare l’impensabile: attaccare la super-potenza romana a casa sua!
Risalita la Penisola iberica e attraversata la Gallia, alla testa d’un esercito composto da circa cinquantamila fanti e novemila cavalieri (e con l’arma segreta costituita da 30 elefanti in tenuta da combattimento) Annibale valicò le Alpi.
Senza grosse difficoltà, ebbe la meglio nei primi tre furiosi scontri combattuti coi Romani che, per superbia o tracotanza, non si erano ancora resi conto del mortale pericolo che li minacciava tanto da vicino.
Soltanto dopo la batosta subita sulle sponde del Trasimeno, Roma entra in panico, convinta che la sua fine fosse prossima.
Annibale però, considerata la stanchezza dei suoi uomini e la scarsità dei rifornimenti, preferì deviare verso sud-est cercando ristoro nelle fertili pianure apule, piuttosto che dirigersi verso l’Urbe per infliggerle il colpo di grazia.
Questa decisione diede ai Romani il tempo per riorganizzarsi con la nomina a dittatore di Quinto Fabio Massimo.
Uomo tutto d’un pezzo passato alla storia per la “magistrale inazione” che gli guadagnò il soprannome di “Cunctator” (“il Temporeggiatore”).
Col nemico egli preferiva ingaggiare scaramucce, tendere imboscate, privarlo di rifornimenti creandogli attorno terra bruciata, o attaccarne le retrovie provocandogli stress, fame e sfinimento, senza mai contrastarlo in campo aperto.
Per questo, se in tanti a Roma iniziarono a disprezzarlo considerandolo un vile, Annibale lo temeva, avendo capito che la sua tattica era quella giusta.
Pertanto, grazie ai numerosi infiltrati e spioni di cui poteva godere in campo avverso, aizzò certi “arruffa-popolo” affinché si rivoltassero contro il “Cunctator”.
Così con le elezioni consolari del 216 a. C. quest’ultimo fu spodestato a vantaggio proprio del peggiore fra gli “agitatori“: Gaio Terenzio Varrone.
Populista ante litteram, veniva dal nulla e incarnava il nulla lui stesso.
Era infatti un ignorante, capace però d’incantare il pubblico con la sua parlantina sciolta che toccava i temi che i suoi uditori volevano sentirsi raccontare.
A lui e al collega Lucio Emilio Paolo fu affidato il comando di un esercito di circa 80.000 uomini spediti ad attaccare Annibale.
Lo scontro ebbe luogo il 2 agosto del 216 a.C. a Canne, nei pressi de fiume Ofanto dove Annibale attendeva con impazienza i suoi nemici.
Pur potendo contare su forze nettamente inferiori, quest’ultimo s’inventò due stratagemmi che sarebbero risultati vincenti.
Innanzitutto, dispose i suoi uomini col vento alle spalle, in una giornata in cui uno scirocco torrido sollevava nugoli di polvere che finivano per accecare gli avversari.
Piazzò poi le truppe migliori sui lati dello schieramento, lasciando i meno freschi al centro, in una posizione “a sperone”.
Pensava infatti che quando i Romani avessero sfondato le prime linee incuneandosi al centro dello schieramento cartaginese, li avrebbero accerchiati rinchiudendoli con una manovra a tenaglia grazie all’azione delle ali.
Ne risultò la peggiore strage mai subita dai Romani in una singola battaglia, una catastrofe senza precedenti che costò la vita a circa 70.000 uomini.
A causa di quella catastrofe, il destino di Roma parve essere segnato per sempre…
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